Trib. di Viterbo, sent. del 15.11.2023, n. 1139

La sentenza in esame affronta il tema della responsabilità della struttura sanitaria in caso di infezione nosocomiale e dell’onere della prova in capo agli eredi del paziente deceduto.

A fondamento delle proprie domande, gli attori ripercorrevano la vicenda clinica della madre, la quale era stata sottoposta ad intervento chirurgico di endoprotesi non cementata dell’anca sinistra al quale erano seguiti due interventi di revisione per intervenuta frattura del femore alla fine della protesi. Dopo il terzo intervento, alla paziente era stata diagnosticata una grave infezione del sito chirurgico e, pertanto, la stessa era stata sottoposta ad ulteriore intervento di asportazione della protesi infetta e impianto di spaziatore antibiotato. Tuttavia, dopo un mese dalle dimissioni, la paziente veniva ricoverata presso un’altra struttura sanitaria e sottoposta ad un ulteriore intervento di rimozione dello spaziatore, anch’esso risultato infetto, e ad un successivo intervento di inserimento di un nuovo spaziatore antibiotato. Una volta dimessa, la paziente veniva assistita a domicilio e, dopo 5 anni, decedeva.

Gli attori esponevano inoltre che, a seguito delle vicende intraoperatorie e degli esiti infausti dei vari interventi, erano stati promossi due separati giudizi ex art. 696 bis c.p.c. e art. 8 Legge n. 24/2017.

Il primo giudizio era stato promosso dalla madre, all’epoca ancora in vita, congiuntamente ai figli, al fine di stabilire la sussistenza di inadempimenti qualificati in capo ai sanitari che ebbero in cura la paziente in diretto nesso causale con i gravi postumi che la medesima lamentava.

Il secondo giudizio, promosso dai figli in qualità di eredi della madre nel frattempo deceduta, era finalizzato alla verifica della riconducibilità del decesso ai comportamenti colposi già riconosciuti in capo al personale delle strutture sanitarie facenti capo all’Azienda convenuta.

In entrambi i giudizi di ATP veniva disposta la consulenza tecnica d’ufficio. Gli attori, nel giudizio di merito, sostenevano che, sebbene entrambe le CTU fossero state affidate al medesimo medico legale, le risultanze delle stesse risultavano, tuttavia, tra loro incompatibili e contraddittorie. Ciò aveva ovviamente impedito la conciliazione tra le parti.

Pertanto, gli attori adivano il Tribunale di Viterbo agendo in via ereditaria e in proprio per il risarcimento dei danni sostenendo: 1) quanto alla prima struttura sanitaria, l’inadeguatezza della procedura chirurgica eseguita (protesi di anca non cementata a fronte di fragilità ossea) e per le improprie indicazioni alle dimissioni (carico progressivo sull’arto operato); 2) con riferimento alla seconda struttura sanitaria, l’omessa predisposizione delle cautele necessarie per limitare il rischio di contrazione di infezioni.

Si costituiva in giudizio l’Azienda Sanitaria convenuta, cui facevano capo entrambe le strutture sanitarie, rilevando come l’insorgenza dell’infezione della ferita chirurgica fosse imprevedibile avendo il personale medico attuato ogni cautela e precauzione, funzionale, strutturale e di metodo, al fine di mantenere costante un’ottimale sanificazione della struttura, dei locali, degli ambienti, dei mezzi e del personale addetto.

Disposta una ulteriore integrazione alle due CTU espletate nei giudizi di ATP, il Tribunale di Viterbo rilevava che dall’esame complessivo dei tre elaborati emergeva che, sebbene fossero state registrate delle mancanze da parte dei sanitari, le stesse risultavano ininfluenti rispetto alle condizioni scaturite in capo alla paziente.

Il Tribunale di Viterbo affermava quindi la mancanza di nesso causale tra la condotta dei sanitari e il decesso della paziente.

Sebbene, infatti, non vi fosse dubbio in merito all’ origine nosocomiale dell’infezione del sito chirurgico, secondo il Giudice, non era però ravvisabile una condotta colpevole o non conforme alle linee guida in capo alla struttura sanitaria o al personale sanitario operante presso la stessa.

Pertanto, le domande attoree venivano rigettate, in quanto, la circostanza che il decesso sia derivato da una infezione di origine nosocomiale non è da sola sufficiente a dimostrare che il personale sanitario abbia posto in essere una condotta omissiva connotata da negligenza, imperizia o imprudenza.

Invero, nel caso di specie, non avendo gli attori allegato e provato la responsabilità del personale sanitario operante presso la struttura sanitaria convenuta, il mero riferimento all’origine nosocomiale dell’infezione contratta dalla paziente non è sufficiente per ritenere dimostrato che tale infezione sia derivata da omissioni del personale sanitario, essendo compreso nel novero delle infezioni nosocomiali ogni infezione contratta in ambito ospedaliero, senza che per ciò solo possa presumersi un’automatica violazione, da parte dei medici o del personale sanitario, di regole di diligenza, prudenza, o in generale di regole cautelari che, nel caso di specie, risultavano peraltro rispettate.

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