Cass. Civ., sez. III, ord. 30.01.2024, n. 2776
La Cassazione, con la sentenza emarginata, torna a chiarire la distribuzione dell’onere probatorio nel caso in cui i congiunti, facenti parte del nucleo famigliare della vittima, abbiano domandato il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale.
Nel caso affrontato, a seguito del decesso del proprio congiunto, la moglie, i figli e i fratelli del de cuius agivano in giudizio, iure proprio e iure hereditatis, nei confronti dell’Azienda Sanitaria, per ottenere il risarcimento dei danni conseguenti al decesso del proprio congiunto ritenuto ascrivibile all’operato dei medici intervenuti.
In primo grado, il Tribunale di Firenze accoglieva la domanda attorea riconoscendo il danno non patrimoniale iure proprio a tutti gli eredi ed il danno patrimoniale solamente alla moglie e ad uno dei fratelli. Tale decisione veniva integralmente riformata da parte della Corte d’Appello di Firenze.
L’Azienda Sanitaria ricorreva per Cassazione impugnando la sentenza della Corte e fondando il proprio ricorso su otto motivi di censura.
I primi due motivi, riguardando entrambi la medesima questione – cioè quale debba essere la prova, da parte dei congiunti, del danno conseguenza della perdita del parente – venivano esaminati congiuntamente.
In merito, il Collegio, premesso che il danno da perdita del rapporto parentale non può non ritenersi in re ipsa, ricorda che nel caso in cui ad agire in giudizio siano i congiunti rientranti nel nucleo famigliare della vittima, vige il principio di presunzione iuris tantum.
Più nel dettaglio, il pregiudizio consistente nella perdita del congiunto può essere ricavato in via presuntiva dal tipo di rapporto parentale che legava la vittima al congiunto superstite, salvo prova contraria. Tuttavia, la perdita del congiunto deve essere risarcita nella misura in cui la stessa abbia prodotto un pregiudizio in capo ai parenti ed è pertanto richiesta, ai fini della quantificazione, la prova dei danni effettivamente subiti dalla perdita del congiunto.
Infatti, la morte di una persona per fatto del terzo è idonea a far presumere, ai sensi dell’art. 2727 c.c., la sussistenza di una sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli o ai fratelli della vittima. Il principio di diritto enunciato dalla Cassazione n. 22937/2022, confermato negli stessi termini dalla Cassazione n. 9010/2022, e richiamato nella pronuncia in esame, ritiene che in tal caso non rilevi né la circostanza della non convivenza tra la vittima e il congiunto, né il fatto che gli stessi fossero distanti. Tali circostanze, secondo gli Ermellini, potranno essere tutt’al più valutate ai fini del “quantum debeatur”.
Su tali presupposti, gli orientamenti citati evidenziano come, in tal caso, gravi sul convenuto l’onere di provare che il congiunto superstite e il de cuius fossero tra loro indifferenti o in odio, e che, conseguentemente, la morte della vittima non abbia causato alcuna sofferenza morale, e dunque nessun pregiudizio non patrimoniale risarcibile, in capo al congiunto superstite.
Secondo il Collegio, pertanto, i giudici di merito avevano correttamente ritenuto sussistenti, in via presuntiva e in assenza di prova contraria da parte convenuta, l’esistenza di pregiudizi rilevanti, ricavabili dal rapporto di parentela, trattandosi per l’appunto di coniuge, figli e fratelli e, dunque, di quella categoria di parenti assistiti dalla presunzione iuris tantum di aver patito una conseguenza pregiudizievole a causa del decesso del congiunto.
In conclusione, nel caso in cui il giudizio sia promosso da parte dei congiunti appartenenti al nucleo famigliare della vittima, la lesione del rapporto può essere presunta dal vincolo di parentela e spetterà al convenuto dimostrare che, a dispetto di quel rapporto di parentela, i congiunti non abbiano subito alcun pregiudizio risarcibile in conseguenza del decesso del paziente.
Cass_civ_sez_III_ord_30_01_2024_n_2776Condividi
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