Trib. di Sassari, sez. I, sent. del 23.11.2023, n. 1209

La sentenza emarginata è stata emessa nell’ambito di un giudizio di merito avente ad oggetto una richiesta di risarcimento danni avanzata dagli eredi della vittima primaria nell’ambito di un procedimento ex art. 702 bis c.p.c.

Nello specifico, la figlia e la moglie del danneggiato agivano in giudizio contro la Struttura Sanitaria ritenendo che il decesso del loro congiunto fosse causalmente collegato alla colpa dei sanitari che avevano avuto in cura il degente per ritardata diagnosi e cura della infezione ivi contratta, con conseguente causazione del decesso del paziente ovvero di perdita delle chances di effettiva guarigione.

Nel ricorso, infatti, le attrici sostenevano la colpa dei sanitari per non aver diagnosticato e trattato correttamente l’infezione polmonare sofferta dal loro congiunto e verosimilmente contratta durante il primo ricovero presso la Struttura Sanitaria convenuta. Pertanto, le attrici agivano al fine di ottenere il risarcimento (i) iure hereditatis per il danno biologico conseguente al peggioramento delle condizioni fisiche del de cuius nel corso dei ricoveri, per il danno morale da sofferenza soggettiva e per il danno tanatologico, (ii) iure proprio per il danno da perdita del rapporto parentale.

Il Giudice, in via preliminare, osservava come, nel caso in esame, la CTU assumesse natura percipiente in quanto le condizioni di salute del paziente all’epoca del decesso e la complessità della sequenza causalistica, necessitavano di precipuo accertamento peritale, così come avvenuto avanti al Collegio poi nominato.

D’altra parte, sulla scorta della richiamata sentenza della Cassazione n. 4792 del 26.02.2013, la consulenza tecnica presenta carattere percipiente nel caso in cui, ai fini dell’accertamento della responsabilità medico-chirurgica, le conoscenze tecniche specialistiche del consulente siano necessarie non solo per la comprensione dei fatti ma anche al loro accertamento. In tali casi, il Giudice può affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti, ma anche quello di accertarli, ponendo la consulenza come fonte di prova in relazione a tale aspetto.

Ebbene, il CTU incaricato a tali fini, analizzata la documentazione clinica in atti, riteneva che, nel caso di specie, i valori clinici del degente non fossero compatibili con l’infezione polmonare indicata nella cartella clinica allegata dalle attrici, costituendo la stessa un indizio documentale di per sé non idoneo a costituire prova del fatto.

Il magistrato, nel condividere l’iter argomentativo ripercorso dal Collegio, osservava come tale ultimo avesse altresì verificato che, nel caso in esame, fossero presenti fattori alternativi causalmente connessi all’evento infausto. Ne conseguiva la conclusione che il decesso e la perdita delle chances di guarigione non trovavano la propria causa nell’omessa e/o tardiva diagnosi e/o cura della polmonite da Acinetobacter baumanii, bensì in cause estranee alla condotta medica. D’altra parte, dalle risultanze della CTU, emergeva come i sanitari avessero seguito la leges artis sia in fase diagnostica che in fase terapeutica.

Sulla base di tali premesse, dunque, il Tribunale di Sassari rigettava le domande attoree sottolineando che la prestazione sanitaria è l’attività esercitata dal professionista sanitario in conformità con le leges artis e con l’obbligo di informazione al paziente e che solo l’inadempimento di tale prestazione comporta la responsabilità del medico con conseguente obbligo di risarcimento dei danni subiti dal paziente.

Infine, il Giudice, dopo aver ribadito che il rapporto ospedale-paziente trova la propria disciplina nell’art. 1218 c.c., ha richiamato il recente orientamento giurisprudenziale secondo il quale nell’ambito della responsabilità contrattuale per inadempimento delle obbligazioni professionali, tra le quali si collocano quelle di responsabilità medica anteriori alla l. n. 24 del 2017, è onere del danneggiato provare, oltre al contratto o al contatto sociale, cioè alla fonte del suo credito, anche il nesso di causalità, secondo il criterio del “più probabile che non”, tra la condotta del professionista e il danno lamentato. Mentre, spetta al professionista dimostrare l’esatto adempimento delle prestazioni o, in alternativa, l’impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile, provando che l’inesatto inadempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile. (C. Cass. n. 10050/2022; nello stesso senso: C. Cass. nn. 28991 e 28992 del 2019).

Pertanto, sulla base delle risultanze della CTU percipiente disposta nel giudizio in oggetto, il Tribunale, considerato che l’evento morte e/o la diminuzione delle possibilità di guarigione non risultavano causalmente connessi alla condotta dei sanitari, ha ritenuto la domanda attorea infondata e ha rigettato il ricorso.

D’altra parte, concludeva il Tribunale, qualora all’esito del giudizio permanga incertezza sull’esistenza del nesso causale tra condotta del professionista e il danno, tale incertezza ricade sul paziente e non sul professionista.

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